martedì 14 maggio 2013

INFLUENZA ARABA NELLA CUCINA SICILIANA




Una grande fortuna giunse in Sicilia sotto gli arabi. Fecero della sua capitale, Palermo, l’epicentro della cultura richiamando a se uomini di vasta cultura che la arricchirono di grandissimi monumenti di cui ancora mostra vestigia.
Gli scambi commerciali, con l’avvento dell’islam fecero giungere molti prodotti dell’agricoltura e dell’industria.
Il riso non attechì come coltura, ma lasciò segno di sé in enogastronomia, le arancine ne sono un simbolo. Le arance fanno ingresso come piante aromatiche , infatti abbonda il loro uso come frutta candita e pianta ornamentale, elementi che rintracciamo nelle decorazioni della pasticceria. Storta e alambicco, di origine araba, si distillava anche la vinaccia per ottenere la grappa, che non veniva utilizzata come bevanda corroborante ma per alimentare lampade e disinfettare ferite. Si può  ipotizzare che fosse già in uso aromatizzare lo spirito con l’anice nei territori ove l’influenza mussulmana fosse più diffusa. 
Per esempio ” l’anis”  spagnolo, il “raki” di tutto il vicino oriente, “ l’ouzo ” greco a l’anice di Sicilia. Anche i “ratafia” infusione di bucce e polpa di agrumi in spirito di vinacce. Già a quel tempo la gastronomia occupa una importante parte della letteratura Araba. Lo stesso familiare di Saladino, scrisse un vero e proprio trattato di cucina il “Wusla-ila-al-habib”. Altre tracce si trovano nelle norme che diedero vita alla regola sanitaria della scuola salernitana, vera e propria summa delle esperienze occidentali e orientali. Trionfano lo zafferano , i chiodi di garofano, la cannella, il muschio e la canfora. Si preferì l’uso della carne trita o preparata in forma di pasticcio.
Ancora giunsero, la carrubba, il cui albero oggi è ritenuto  patrimonio dell’umanità e tutelata dall’Unesco; il sesamo ancora oggi si distingue nelle decorazioni del pane e nell’uso della pasticceria con la cobaita (barretta di sesamo, miele e mandorle sparse proveniente dalle zone di Ragusa e Siracusa quindi  dal “Val di Noto”.  Miglio, meloni, cipolla scalogno, e persino lo zucchero. Fino ad allora gli europei usavano il miele come dolcificante. La coltura della canna da zucchero,  è documentato che fu da questi diffusa, infatti esiste ancora oggi la contrada “cannetta” che si snoda lungo il fiume Eleuterio, tra Ficarazzi e Misilmeri nella provincia del capoluogo Siciliano, che culmina sulle cime di una collinetta detta “ Pizzo Cannetta”.
L’arrivo degli Arabi produsse una vera e propria rivoluzione delle abitudini alimentari dei Siciliani. La pesca, l’albicocco, il ficodindia, i datteri, ortaggi delicati come gli asparagi, le melanzane, il cotone, il pistacchio, sono ad essi attribuibili. Anche il gelsomino, da cui oltre il delicatissimo profumo si ricorda il delicato gelato “scursunera”. E ancora il sorbetto di agrumi da cui deriva il nome “scharbat” .Un trionfo anche nella pesca, sembra che già allora venisse, sperimentata la complessa tecnica per la pesca del tonno, ancora oggi in uso.
Un pasticcio fu poi  intitolato all’emiro di Catania Mohamed Ibn Timnah. Si potrebbe proseguire, con infiniti aneddoti e minuziosi racconti, ma se volessimo giunti fin qui delineare alcuni caratteri comuni della cucina arabo-siciliana noteremmo che è assente l’uso di antipasti, si prediligono piatti unici che costituiscono l’intero pasto e il caleidoscopico sviluppo della pasticceria. La mandorla, il pistacchio, il miele e la ricotta, seguiti dalla cannella e dalla zuccata sono gli elementi essenziali che caratterizzano la tradizione dei dolci a cui si possono ascrivere 200 varietà.
Dalla cassata regina dei banchetti al cannolo suo fedele compagno, ai dolci di riso nelle sue varianti di “riso ammanticatu” in compagnia di “crespelle si risu” e  “sfinge di risu” .  Ma non posso non stuzzicare ancora il desiderio gastronomico caratterizzato dal contrasto tra piccante e dolce, centrale nella cucina siculo-araba. 
La “Pasta chi sardi”  la cui paternità è attribuita al cuoco del generale arabo Eufemio  che sbarcando in Sicilia alla conquista dell’isola si trovo’ a dovere sfamare le sue truppe in condizioni disaggiate. Il cuoco aguzzo’  l’ingegno  unendo  quello che la natura intorno offriva, pesce e finocchietti , pinoli, pasolina e zafferano lo completarono. Altra leggenda racconta:  Zucca in agrodolce “ Ficatu ‘ri setti cannoli”  nel cuore della vucciria è sita la celebre fontana del  “Garaffello” che posside sette bocche. Era solito fermarsi un venditore ambulante di zucca già cotta, cibo da strada comune nella tradizione araba la vendita di cibi già pronti in strada, con il suo slogan il venditore proponeva la sua merce  impreziosendola metaforicamente con un poi probabile uso di tocchetti di fegato di vitello.

Testo a cura di  Sabrina Gianforte. PREFETTO AIGS Sicilia Occidentale. Esperta in comunicazione d'impresa e marketing, ideatrice di stili e momenti di consumo. Curatrice di mostre e rassegne culturali. Da 10 anni cura la selezione di specilità enogastronomiche con la propria boutique del gusto Confezionando. Scrive per varie testate come free lance.

Nessun commento:

Posta un commento